Tra i tanti ricordi che ho delle estati trascorse tra le persone in difficoltà, ricordo quella del 2014. Da poco più di un anno ero assessore al Comune di Napoli, un ruolo ed un contesto completamente nuovi per me.
In quel periodo cominciarono ad arrivare, via terra ma soprattutto a seguito degli sbarchi al porto di Napoli, centinaia minori non accompagnati, giovani provenienti da paesi in guerra o estremamente poveri, giunti qui senza la presenza dei genitori o di adulti di riferimento, ragazzi fuggiti dai loro paesi d’origine a causa di conflitti, violenza, povertà o persecuzione.
Ricordo i loro volti, stremati dal lungo viaggio; alcuni di loro, giovanissimi, tremanti per la prima volta, si trovavano lontani dalle loro famiglie, incerti sul loro futuro, dopo aver vissuto esperienze orrende durante il viaggio, a volte più lungo di un anno.
Proprio in una di quelle domeniche roventi, volli incontrare alcuni di quei ragazzi, ascoltare le loro storie. Poco importava che quella domenica potessi trascorrerla con i miei cari; volevo che quel giorno di pausa diventasse tale anche per quelle poveri ragazzi.
Tra tutti ricordo tre fratelli, Hassan, Karim e la loro sorella Amira, la più piccola dei tre. Conoscevano un po’ di italiano, lo avevano imparato nella scuola del loro villaggio, dove c’era la presenza di alcuni volontari italiani. In realtà spesso si trattava di piccole comunità dove i ragazzi venivano preparati al lavoro nei campi. Qui, mi dicevano, c’era un anziano signore di Napoli che molti anni fa partì per quei territori e vi rimase, aiutando quelle comunità. Il suo nome sembra fosse Italo, ma ritengo che lo avesse adottato per portare in alto il nome dell’Italia.
I tre fratelli erano molto legati a Italo, al punto tale che, quando ne parlavano, i loro occhi diventavano lucidi. Non ho mai conosciuto chi fosse veramente Italo, ma so per certo che quel nostro concittadino, lì in quei territori così difficili, aveva fatto davvero un buon lavoro. Quei ragazzi conoscevano la nostra città, la nostra cultura; dell’Italia conoscevano poche cose, ma di Napoli ne sapevano davvero tanto.
Di anni ne sono passati dieci, ma l’affetto e il legame con quei tre ragazzi non sono mai finiti. Ci siamo incontrati spesso, li ho visti crescere, diventare maggiorenni, mettere su famiglia, diventare adulti.
Ed è così che Hassan, il più grande dei tre, ha studiato, laureandosi in medicina; oggi lavora in uno dei nostri ospedali cittadini, ma ci incontriamo spesso nei tanti centri d’accoglienza dove presta servizio medico da volontario.
Karim, il secondo dei tre fratelli, ha aperto da anni un ristorante tipico, con prodotti della sua terra mescolati e ben integrati con i nostri. Oggi ha tre figli piccoli che rincorre spesso nei vicoli di Napoli, vispi come non mai; mentre Amira, la più piccola dei tre, si sta per sposare proprio con un napoletano. Lei è casalinga e parla con uno spiccato accento napoletano. Quando la saluto, mi emoziono nel sentire quelle sue parole di riconoscenza in perfetto dialetto partenopeo verso chi, come me, in quel ferragosto del 2014 era lì ad accoglierli, sull’asfalto rovente del molo Pisacane. Li guardavo scendere in fila dalla nave e mi sembrava di poter leggere nei loro occhi, si la stanchezza e la sofferenza, ma anche la speranza di una seconda possibilità di vita.
Non so chi sia realmente Italo, ma questa domenica, a pochi giorni dalla Giornata Mondiale del Rifugiato, voglio dedicarla a tutti coloro che hanno sacrificato se stessi per gli altri, ai tanti Italo che con orgoglio e passione portano in alto il nome della nostra città in giro per il mondo.