Oggi voglio raccontarvi un episodio di cui sono stata testimone qualche giorno fa, mentre lasciavo il mio ufficio al Centro Direzionale.
Sotto ad una pioggia battente e impietosa di questo gennaio non freddo ma uggioso, le mura del carcere di Poggioreale sembrano ancora più alte, invalicabili e gelide.
Una donna giovane, ma con il volto segnato da anni di dolori e preoccupazioni, stringe con una mano il lembo del suo scialle sbiadito e con l’altra tiene stretti i suoi due bambini.
I piccoli, una femminuccia ed un maschietto, con occhi vivaci e pieni di domande non dette, si arrampicano sull’auto che la mamma ha fermato con le quattro frecce che lampeggiano… Cercano con lo sguardo qualcosa che dia senso alla loro presenza lì, invece di essere a scuola come tutti i loro amichetti.
“Papà ci vede, vero mamma?” chiede il più piccolo, con la voce tremante di speranza.
Lei annuisce, non trovando la forza per parlare. Poi, alzando un braccio, inizia a sbracciarsi con vigore, come a voler abbattere quella distanza che le mura, le sbarre e la giustizia hanno imposto.
I bambini la imitano, le manine che agitano l’aria in un saluto disperato.
Dall’altro lato, dietro una piccola finestra ingabbiata, appare un braccio. È un gesto timido, quasi nascosto, ma quel movimento è sufficiente a spezzare per un attimo il peso della separazione.
“È lui!” gridano i bambini in un’esplosione di gioia. La donna abbassa lo sguardo, mordendosi il labbro per non piangere. “Salutate, amori miei,” sussurra piano , “fateglielo sentire forte che siamo qui.”
E così, in quel breve istante di connessione tra un mondo dentro e uno fuori, il silenzio di Poggioreale sembra quasi riempirsi di qualcosa di più umano: un amore che non conosce confini.
Chi sconta una pena in carcere porta un doppio fardello: quello della propria colpa e quello della lontananza da chi ama, perché spesso la famiglia e i figli soffrono altrettanto.
Le condizioni disumane degli istituti di pena aggravano questa frattura, rendendo la riabilitazione una chimera e non un diritto. Ogni essere umano, anche nella colpa, merita dignità, perché solo attraverso il rispetto si può ricostruire ciò che è stato spezzato.
Non bisogna mai dimenticare che dietro ogni condanna seppur legittima ci sono storie, fragilità e un bisogno disperato di riscatto, per sé e per chi aspetta fuori.